Dopo aver tentato di ricordare al mondo intero quali fossero le loro origini con l’album “Korn III: Remember Who You Are”, i Korn ritornano alle sperimentazioni a loro tanto care in questi ultimi anni e con un colpo di scena si spingono oltre stringendo questa volta un “patto” con alcuni dei migliori dj della scena dubstep.
Un progetto dunque totalmente diverso che va a scontrarsi contro la storia stessa della formazione californiana, la quale sembra ormai tentare il tutto per tutto al fine di rivitalizzare e donare nuova freschezza alla propria carriera, piuttosto in declino viste le ultime deludenti uscite discografiche.
Sembra ormai chiaro che Jonathan Davis abbia rimodellato i Korn a sua immagine e somiglianza al punto che in questo nuovissimo “The Path Of Totality” la presenza di Munky e Fieldy passa in secondo piano, pesantemente offuscata dalla massiccia presenza di componenti elettroniche.
Tra i vari dj chiamati in causa in questi 13 brani spicca certamente Skrillex (alias Sonny Moore, ex-frontman dei From First To Last, per chi ancora non lo sapesse) il quale mette le mani nei due brani migliori dell’intero disco, ovvero “Get Up!” e “Narcissistic Cannibal”, non a caso scelti come singoli con le loro melodie di facile presa sull’ascoltatore.
Per il resto si ha invece un’accozzaglia di collaborazioni che non convincono appieno, tra parentesi veramente inutili ed altre che invece raggiungono la sufficienza solamente se supportate da una gran dose di apertura mentale, perché diventa necessario oggi più che mai cancellare ogni residuo dei Korn che furono ed accettare quel poco di buono ci viene offerto attualmente.
Confidando nel fatto che alcune canzoni come “Chaos Lives In Everything”, “Let’s Go” o “Fuels The Comedy” acquisiranno una maggiore consistenza e potenza in sede live, “The Path Of Totality” è un disco che in molti faranno fatica a digerire, perché diciamoci la verità, nessuno si sarebbe mai sognato di vedere i Korn nella dimensione dubstep, nemmeno nei suoi peggiori incubi.
Eppure tutto questo è successo davvero, quella che doveva essere una singola collaborazione si è trasformata in un vero e proprio album a tutti gli effetti, perché d’altronde il buon Jonathan Davis ha sempre flirtato con gli ambienti mainstream e quando si mette in testa una cosa è difficile fargli cambiare idea, con buona pace dei poveri Munky e Fieldy, qui spettatori non paganti.