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LIMP BIZKIT
THE UNQUESTIONABLE TRUTH (PART 1)
Oscar Wilde sosteneva che al mondo vi fosse solo una cosa peggiore del far parlare di sé, e cioè il non far parlare di sé; i Limp Bizkit ed il loro leader Fred Durst hanno più volte ampiamente dimostrato il valore di tale assunto: non menzionando i ricorrenti gossip che documentano l’animata vita sentimentale del furbo e carismatico frontman, nel corso delle passate stagioni non sono mancate importanti notizie che abbiano scosso e scatenato le discussioni di critica e fans… prima l’abbandono-choc del poliedrico mago delle sette corde Wes Borland, a cui è seguito un disco (“Results may vary” del 2003, con l’ex Snot Mike Smith – in seguito fatto fuori bellamente – a cercare di colmare il vuoto lasciato dal chitarrista pitturato) lungamente chiacchierato e bacchettato… poi il teatrale colpo di scena del ritorno all’ovile del “figliol prodigo” Wes (da tempo impelagato tra progetti solisti di estrema inconcludenza), rimpatriata che ha infine generato l’ultimissima fatica della band, “The unquestionable truth (part 1)”… lavoro su cui già si sprecano fiumi di parole e litri di inchiostro.
Trattasi innanzitutto di un misero mezzo album (il primo di due album gemelli), sette canzoni per un inaccettabile minutaggio inferiore alla mezzora (ad un prezzo comunque sproporzionato): siffatta scelta non può che suscitare forti ed aprioristiche perplessità, in quanto il banchetto luculliano che era lecito aspettarsi della tanto pubblicizzata reunion del quintetto di Jacksonville si tramuta subito in uno spuntino, un boccone che vorrebbe suscitare l’appetito dello stuolo di affamati aficionados della mensa dei Limp Bizkit…
Il pasto al fast-food di “chef” Durst si apre con “The propaganda”, il cui riff di chitarra potente (chiaro l’omaggio alle lezioni “panteriane” del defunto Dimebag Darrell) ma monotono frustra in parte il virtuosismo di Borland: l’opener complessivamente non dispiace, nonostante un ritornello non propriamente al fulmicotone ed un finale (dopo un discreto stacco) penalizzato da una straziante linea vocale disgraziatamente intrapresa da Fred. Con “The truth” (il singolo dell’album) inizia a palesarsi il tentativo della band di parafrasare il mitico sound dei Rage Against The Machine: i giri di chitarra neo-morelliani sono imbellettati dal buon basso dello spesso sottovalutato Sam Rivers, mentre i pessimi campionamenti triti e ritriti (folla esultante e coro gregoriano) di DJ Lethal ed un velato accenno di percussioni tribali paiono ultronei e rinunciabili ai fini della riuscita di una canzone comunque abbastanza gradevole. Dopo avere rappato le proprie inoppugnabili verità, Fred Durst cambia registro sulla successiva “The priest”, dove adotta in parte un’inflessione dimessa e sottotono: il pezzo (il cui testo si interroga superficialmente su questioni pseudo-spirituali) è costruito su un alternarsi di piano e forte decisamente prevedibile e poco suggestivo e galleggia in una dozzinale atmosfera oscura, prima di chiudersi con un outro campionato che riproduce una marcetta militare. La quarta track è uno spiccio (poco più di un minuto) intermezzo dal sapore funky/hip-hop: per quanto inutile, insufficiente e fuoriluogo, “The key” (oltre a risvegliare momentaneamente DJ Lethal dal suo stato comatoso…) riesce a suscitare la malinconia per i tempi d’oro del crossover scanzonato di “Significant other”… tempi che appaiono ben lontani passando all’ascolto di “The channel”, piuttosto fiacca musicalmente (nonostante l’apporto alla batteria dello sporadico John Otto, assente sulle restanti canzoni e sostituito dall’ex CIV e Glassjaw Sammy Siegler), ridicola sul piano delle liriche e sgonfia su quello delle vocals (intollerabile il nuovo, maldestro tentativo di imitazione della grinta di Zack De La Rocha)… Svestiti gli scomodissimi costumi dei novelli R.A.T.M. e rimessi indosso i propri, caratteristici e più comodi panni, i Limp Bizkit 2005 danno (per quanto possibile) il meglio di loro con la spedita “The story”, che suona personale e genuina e cita (“Live and let die”) James Bond, Paul McCartney e i Guns N’Roses. “The surrender” ultima la (breve) sfilza di titoli “articolati” del semi-lp, una “morte improvvisa” che non equivale effettivamente ad un male: anche il finale di “The unquestionable truth (part 1)” non soddisfa, trattandosi di una ballatona semi-acustica (con armonica e contrabbasso) alla Metallica che riesce solo a comunicare noia e disappunto.
Il “primo tempo” del quinto album dei LB è un deludente insuccesso, una risibile caricatura dello stile e dell’immaginario dei Rage Against The Machine (con le debite proporzioni, il paragone riesce a reggere sul campo strumentale – la stoffa del redivivo Borland si sente e non si discute – ma diviene insostenibile insulto il raffronto di vocals e testi, colpa di un Fred Durst – tallone d’Achille dei suoi – dalla voce senza carattere nonché sprovvisto delle capacità di disquisire dei mali della società senza apparire ridicolo): in attesa dell’appello, è questa l’unica verità incontestabile che i “nuovi” Limp Bizkit riescono, loro malgrado, a spacciarci.
Silvio52
Voto: 5
TRACKLIST:

01 .The Propaganda
02 .The Truth
03 .The Priest
04 .The Key
05 .The Channel
06 .The Story
07 .The Surrender