Che i Darkest Hour piacciano ai metallari è una cosa capibile visto il death metal proposto. Ma a differenza di mostri sacri superiori ai Darkest Hour come At The Gates, In Flames, Dark Tranquillity e Soilwork (giusto per citarne alcuni), la band di Washington riesce a chiamare a sè l'attenzione di un pubblico meno settoriale e più variegato, giovani frangette da competizione comprese. Sarà per le radici hardcore? Sarà perchè sono americani? Sarà per la loro appartenenza alla Victory Records? Non si sa. Comunque non importa. L'unica cosa importante, in fondo, è la musica. Come sempre.
I Darkest Hour ripartono da dove si erano fermati con il precedente "Undoing Ruin", ancora una volta spinti dall'imponente supporto mediatico voluto dalla Victory: la formula è ovviamente improntata sugli stessi dogmi, il death metal è sempre in prima linea. Ma si notano alcune differenze.
L'influenza thrash appare infatti maggiormente evidente rispetto al passato, gli arrangiamenti rivelano miglioramenti ad una tecnica già invidiabile, il retrogusto heavy classico appare più sfizioso complice l'inserimento di assoli qualitativamente ineccepibili: la miscela è compatta e lineare, il groove è brillantemente mastodontico, la tracklist è gradevole ed accattivante. Il suono appare così più  elegante ed estremamente potente grazie al cesello di Devin Townsend il quale non stravolge le carte in tavola preferendo focalizzarsi sull'enfatizzazione delle atmosfere e sull'incisività dei suoni, con la sezione ritmica che rivela precisione quasi maniacale mentre la voce di John Henry risuona meno stridente, meglio adagiandosi alla forma dei brani.
Il trittico iniziale rappresenta il punto clou dell'intera release, portando "Deliver Us" a livelli superiori rispetto a quelli toccati da "Undoing Ruin" con tutte le caratteristiche per piazzarsi tra i migliori dischi dell'anno.