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LOSTPROPHETS
THE BETRAYED
I Lostprophets sono dei poser, anzi sono i poser con la “P” maiuscola. Non credo che qualcuno possa smentirmi, in merito. Fin dagli inizi il loro unico obbiettivo è stato riproporre pedissequamente quello che più in voga c’era al momento, cavalcando un po’ tutte le onde e le mode degli ultimi dieci anni.
A differenza di milioni di altre band però, loro nel farlo sono sempre stati dei gran fighi. Se fossimo in tribunale ed io fossi un avvocato, a questo punto porterei all’attenzione della corte due prove di questa mia tesi: “The Fake Sound Of Progress” e “Start Something”. Due dischi in cui personalità e innovazione risultano non pervenute, ma che contengono un tot di tracce eclatanti capaci di mettere d’accordo un po’ tutti i gusti e i movimenti dei primi anni zero, dal nu-metal al nu-emocore.
Insomma, chi ha detto che un bel disco debba per forza di cose essere innovativo? Non certo il sottoscritto. Per quel che mi riguarda quindi i Lostprophets sono un progetto ai limiti dello storiografico, una band che racconta tramite i suoi dischi i suoni e le mode del periodo in cui si trova a suonare. Il grosso problema in un'operazione come questa arriva quando la moda del momento è qualitativamente un abominio, perché se sei veramente bravo a raccontarla ti tocca fare un disco osceno. La mia tesi è che i Lostprophets in questo siano maestri e quindi porto al banco delle prove il terzo album, “Liberation Transmission”: un disco che più brutto non si può, fotografia della decadenza di un certo tipo di suoni alla fine degli anni zero. Tutto torna. C.V.D..
La domanda adesso è come si contestualizza in quest’opera di narrazione storica un disco come “The Betrayed”, uscito proprio alla conclusione del decennio che i cinque gallesi hanno deciso di raccontare attraverso tutte le tappe della moda alternative? Bastano pochi ascolti per capirlo. Il nuovo lavoro dei Lostprophets è contemporaneamente un riassunto di quanto è stato fatto fino ad ora, una sorta di riepilogo di fine capitolo, ma anche un’apertura alla nuova tendenza indie. Tutto insieme. Una roba che nessuna band riuscirebbe a scrivere senza rendersi ridicola e che invece loro possono proporre con una credibilità invidiabile. Ditemi chi altri potrebbe scrivere un pezzo come “Dstryr/Dstryr” senza venire citata in giudizio dai Rage Against the Machine per diffamazione (attenzione: non per plagio, perché siamo ai limiti della parodia) o pezzi come “Next Stop, Atro City” o “Streets of Nowhere” senza venire etichettati come new sensation dell’indie da classifica. Insomma, per essere sempre alla moda anche quando le mode cambiano ci vuole bravura e questo va riconosciuto. Giù il cappello a chi fa della poseraggine una professione e la porta a termine con costanza e senza ripensamenti, sfoggiando una notevolissima faccia tosta.
Il disco non lo valuto perché secondo me non ha senso dargli un voto; ma per quanto ognuno possa avere in merito un’opinione diversa, sfido chiunque a non lasciarsi coinvolgere da un singolone come “Where We Belong”.
Manq

TRACKLIST:

01. If It Wasn't for Hate, We'd Be Dead by Now
02. Dstryr/Dstryr
03. It's Not the End of the World, But I Can See It from Here
04. Where We Belong
05. Next Stop, Atro City
06. For He's a Jolly Good Felon
07. A Better Nothing
08. Streets of Nowhere
09. Dirty Little Heart
10. Darkest Blue
11. The Light That Shines Twice as Bright..."