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RUFIO
ANYBODY OUT THERE
I Rufio sono stati la grande promessa mancata dell’HC melodico del nuovo millennio. Quando questo genere iniziava ormai a morire e chiedeva a pieni polmoni una nuova linfa che per forza di cose le band che lo resero grande negli anni novanta non potevano più trovare, questi ragazzi erano tra i più gettonati a riuscire nell’impresa.
Quest’idea non si fondava sul nulla, siamo chiari, perché gettava le sue solidissime basi in un disco come “Perhaps… I suppose”, sintesi di quel che poteva voler dire HC melodico svoltato l’angolo del 2000. E non solo, visto che l’opera era stata ben continuata con il successivo “MCMLXXXV”. Due dischi, uno di seguito all’altro, che se non facevano gridare al miracolo poco ci mancava. La storia della band però, a quanto ne so, non dev’essere stata particolarmente fortunata tra furti di strumentazione ed incidenti vari e forse anche quello li ha portati alla decisione di tentare di fare il botto con “The comfort of home”. L’idea, secondo me, era quella di dire: “Ok, o si sfonda o si molla tutto”. Il problema è che per farlo l’HC melodico non è certo il genere migliore, quindi via tutto e spazio ad un più vendibile pop-punk tipico degli anni zero. Risultato? Disco impresentabile e scioglimento della band.
Nel 2009 però i Rufio decidono di riprovarci e si rimettono a fare musica cambiando due dei quattro elementi ed il risultato tanto atteso è “Anybody out there” rilasciato nuovamente per Militia Group come il fortunato esordio. Diciamolo subito, purtroppo questa è l’unica cosa in comune che questo disco ha con il suo predecessore.  Partiamo dal principio. La prima traccia di questo nuovo lavoro è “Little world” e parte con tutte le buone intenzioni del caso, con riffone rubato al metal e melodie zuccherine. Siamo nell’orbita di “MCMLXXXV”, come suono, e quindi niente di cui lamentarsi. L’involuzione però è repentina e ripida come una cascata e così il livello generale precipita pezzo dopo pezzo. Manca velocità, manca melodia, restano solo i clichè e quanto di peggio si poteva trovare in “The comfort of home”. Anche i pezzi in cui si prova a premere sull’acceleratore, come “Under 18” e “All that lasts”, risultano abbastanza vuoti e privi di mordente oltre ad essere annegati un una brodaglia di ballate che ne diluisce l’eventuale carica. L’unica altra traccia che salvo, oltre quella che apre il disco, è forse “The loneliest”, che alla fine è sì pop-punk, ma almeno è fatto come si deve.
Non nego quindi la profonda amarezza che ho provato nell’ascoltare questo disco. Per me è stato come vedere un giocatore di calcio che nelle giovanili era fortissimo, ma che dopo un tremendo infortunio si ritrova a giocare nel campetto di una provinciale in serie C. Lo guardi mentre si danna in mezzo al campo e pensi che sarebbe potuto diventare un fenomeno vero. Ogni tanto piazza anche qualche giocata che ti fa sperare che possa essere ritornato quello di un tempo, ma poi realizzi che per lui il treno è già passato e che l’ha irrimediabilmente perso. E’ un peccato, ma se tu da tifoso te ne sei fatto una ragione, forse dovrebbe farsela anche lui.
Manq
Voto: 4
TRACKLIST:

01 – Little world
02 – Drunk in love
03 – Under 18
04 – What you wanna here
05 – Deep end
06 – Gold and Silver
07 – Anybody out there
08 – All that lasts
09 – This I swear
10 – The loneliest
11 – Run
12 - Moonshine